Il castello del Duca Barbablù
Lago di lacrime

Il castello del Duca Barbablù

Il castello del Duca Barbablù: l’opera lirica più intensa del secolo scorso

Il castello del Duca Barbablù, porta sei, prima parte.
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Judit

Vedo un bianco lago silenzioso.

Un bianco lago immobile.

Che acqua è questa, Barbablù?

Barbablù

Lacrime, Judit, lacrime, lacrime.

Bèla Balàzs
Il Castello del Duca Barbablù

Nel 1911, grazie alla collaborazione di due artisti di fama internazionale, prende vita una delle opere liriche più intense del secolo scorso: Il castello del Duca Barbablù (A kékszakállú herceg vára). Dopo un primo ascolto avvenuto quasi per caso in un’aula univeristaria in cui non ero stata in grado di comprendere nemmeno una parola (l’opera è in ungherese), ho cercato il libretto e la sua traduzione. Le musiche di Bèla Bartόk e le parole struggenti  di Bèla Balázs si sono impresse in modo indelebile nei miei pensieri,  tanto da arrivare a dedicargli gran parte del mio lavoro di tesi specialistica. Avere assistito alla sua rappresentazione nel 2008 alla Scala di Milano non ha fatto altro che convincermi maggiormente della grandezza di un’opera tanto breve quanto vibrante.

Genesi de Il castello del Duca Barbablù

L’occasione che fece avvicinare Bartók e Balázs, fu un concorso per un’opera in un atto, bandito nel 1911 dal Ministero per le belle arti di Budapest. Allora il clima culturale e politico in Ungheria non era dei più favorevoli a lavori tanto innovativi, e la commissione  giudicò “ineseguibile” la partitura de Il Castello del duca Barbablù. 

Bartok al pianoforte

Bartok al pianoforte

I destini dei due artisti tornarono a incrociarsi poco prima della fine della grande guerra in un clima politico più favorevole, grazie alla mediazione del romano Egisto Tango. Insediatosi sin dal 1913 alla testa del Teatro dell’Opera di Budapest, Tango fu musicista di tendenza cosmopolita e lavorò, anche, al Metropolitan di New York, dove per due anni fu a contatto diretto con Mahler e Toscanini. Era un uomo estremamente aperto alle novità, e si adoperò per mettere in scena A fából faragott királyfi (Il principe di legno) nel 1917: il balletto di Bartók su scenario di Balázs ottenne un vivo successo, e ciò consentì al direttore italiano di riproporlo il 24 maggio 1918 insieme a Barbablù. Purtroppo, nel 1919, lo scoppio di una sanguinosa guerra civile e gli eventi che precipitarono nel giro di pochi mesi ebbero un impatto notevole sulle attività artistiche. La conquista del potere da parte dell’ammiraglio Miklós Horthy, che impose un controllo spietato su ogni aspetto della vita civile, portò all’allontanamento di Tango. Sorte migliore non toccò nemmeno a  Balázs che dovette fuggire in Austria, mentre per i compositori che avevano partecipato all’esperienza rivoluzionaria cominciarono tempi assai duri. Nonostante la fama internazionale di Bartók si stesse consolidando, l’ostilità degli ambienti ufficiali e quella della censura impedì altre riprese di Barbablù in UngheriaL’opera fu rappresentata in Germania due volte, a Francoforte nel 1922 e a Berlino nel 1929, ma per risentirla nel suo idioma originale si dovette attendere il 1935. Fu solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale che Barbablù poté occupare il posto che gli spetta nel rango dei capolavori del teatro musicale del nostro secolo.

Un atto unico con un protagonista innovativo: l’Antico Castello

L’opera – che si srotola in una frenetica e ossessiva richiesta di chiavi e di porte da aprire – è un atto unico che inizia con un prologo recitato misterioso, affidato a un bardo o menestrello, che si rivolge al pubblico a sipario chiuso ed ha il merito di sottolineare il carattere simbolico e interiore della rappresentazione:

“Ahi, storie segrete,/Dove, dove trovarle?/C’era una volta: dentro o fuori?/Antica storia che significherà,/Uomini e donne?/Ecco, il canto s’intona,/Voi mi guardate, io vi guardo,/Il sipario delle nostre palpebre si leva,/Dov’è la scena: dentro o fuori,/Uomini e donne?/Storie amare e felici,/Storie famosissime,/Il mondo è pieno di guerre,/Ma non è lì, la nostra morte,/Uomini e donne./Ci guardiamo l’un l’altro,/Raccontiamo la nostra storia,/Chissà da dove ce la portiamo appresso,/La ascoltiamo, e ci stupiamo,/Uomini e donne./La musica risuona, le fiamme ardono,/Incominci pure lo spettacolo,/Si alzi il sipario dai miei occhi;/Quando s’abbasserà: battete le mani,/Uomini e donne./Antico castello; è antica leggenda/Che narra la sua storia;/Ascoltatela anche voi. “

Nell’ultima frase del prologo, il Bardo svela chi è l’autentico protagonista dell’opera bartokiana: il castello, che attira a sé e imprigiona uomini e orrori. Barbablù e Judit, gli unici personaggi umani in scena,  sono vittime del castello, padrone e carceriere delle loro crudeltà e paure.

Il simbolismo di Maurice Maeterlinck

Il castello del Duca Barbablù nasce grazie alla concezione simbolista di Maurice Maeterlinck, autore di Pélleas et Mélisande (musicato da Debussy nel 1902) e di  Ariane et Barbe- Bleue scritto per la musica di Paul Dukas.

Tratto molto diffuso, nel teatro musicale del primo Novecento europeo, è la rilettura, in chiave moderna, dei miti e delle favole e la loro conseguente interpretazione psicoanalitica.

Béla Balasz prende spunto, per comporre il suo libretto, da Ariane et Barbe- Bleue, ma regala una chiave di lettura completamente diversa. Se, nonostante tutto, Ariane riesce a portare un poco di luce nel labirinto psichico e morale di Barbe-Bleue, Judit fallirà nel suo intento: l’opera di Bélazs-Bartók ha risvolti cupi e inquietanti che non permettono né redenzione né  salvezza.

L’opera si chiude nell’oscurità assoluta  – e con la stessa musica – con cui era iniziata. L’intero intreccio si svolge in un’atmosfera sospesa, dove componenti del simbolismo francese si fondono con altre derivate dall’espressionismo tedesco.

L’altissimo potenziale icastico e visionario aumenta la potenza delle parole e della musica: il buio totale da cui emerge il castello, rende l’azione fantasmatica, quasi una proiezione cinematografica. Non è un caso che di lì a poco, Balazs sarebbe diventato uno dei più importanti teorici del cinema.

Vi lascio ascoltare, (trovate l’audio all’inizio del post), una delle mie parti preferite dell’opera: la porta numero sei, il lago di lacrime.

Author

Sara
Dottoranda in letterature comparate, laureata in Scienze dei beni culturali con specializzazione in storia del teatro e del cinema. Ex pianista, attualmente si occupa di portare avanti il proprio progetto di ricerca universitario, in concomitanza scrive, soprattutto narrativa e pièce teatrali. Nel tempo libero legge tantissimi libri, guarda film internazionali e serie televisive statunitensi.

4 comments

  • Ciao Sara! Io sono un’appassionata d’opera, ma questa non la conoscevo.
    Grazie per avermela fatta scoprire! Credo proprio che tornerò su queste pagine!
    Ciao
    Laura

    Reply
  • Ho letto con piacere questa pagina che mi ha riportato a qualche hanno fa quando ho potuto vedere questa opera alla Scala di Milano. Mi hai fatto rivivere sensazioni quasi dimenticate.
    Grazie.

    Reply

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