[testimonial image=”” name=”Maurice Blanchot” title=”Lo spazio letterario”]
Scrivere, vuol dire farsi l’eco di ciò che non può cessare di parlare, – e, proprio per questo, per divenirne l’eco, devo in un certo modo imporgli silenzio. […] Questo silenzio ha la sua origine nella sparizione alla quale è invitato colui che scrive.
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Ne Lo spazio letterario Maurice Blanchot descrive la scomparsa a cui è soggetto colui che scrive. L’autore che desidera che sia l’opera a parlare, dovrà smettere di esprimermi e restare in silenzio. “Sono sempre più convinto che la verità corrisponda al silenzio. […] Se proprio vogliamo ancora pronunciarci non ci resta, e ne ho parlato altre volte, che ascoltare”, scrive anche Giulio Paolini.
Famosa è la risposta di Bartleby nell’omonimo libro di Herman Melville: “I would prefer not to”, utilizzata spesso da Paolini quale autore che rinuncia a pronunciarsi. L’espressione “I would prefer not to” evade volutamente una risposta, si tiene tra il sì e il no, non si sbilancia. È ancora l’artista a ribadire:
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Chi si esprime è perduto. Credo di doverlo ripetere: non ho mai voluto esprimermi nell’opera. Ho sempre lasciato (ho sempre preteso) che fosse l’opera a esprimersi, a dichiararsi, a dire a chiare lettere chi è e da dove viene.
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La chiave di questa espressione interrotta è individuata, in linguistica, nel passaggio dal pronome Io al pronome Egli, definito da Roland Barthes nel testo Scrivere, verbo intransitivo?, come la “non-persona”. Egli è “segno di colui che è assente, segno dell’assenza”, continua Barthes. Della stessa opinione è Blanchot che definisce Egli come “me stesso diventato nessuno”, o ancora, come un io “senza volto”. La sparizione dell’autore non è dunque una sparizione completa, ma è piuttosto una sostituzione. All’autore si sostituisce lo scrittore. Un artefice ancora presente, ma che si impone di rimanere in silenzio.
L’autore Giulio Paolini decide di farsi da parte e di essere null’altro che un pittore. Abbandonata la scena, smessi i propri abiti, decide di scendere in platea insieme al suo pubblico. D’ora in poi osserverà l’opera da lontano, senza frapporsi ad essa.
“L’allontanarsi dell’Autore – scrive Barthes – trasforma radicalmente il testo moderno”. Laddove prima si sviluppava un rapporto di antecedenza tra un Autore e il suo tempo (per cui il primo anticipava sempre il secondo), ora “Lo “scrittore” moderno – il soggetto della scrittura – nasce invece contemporaneamente al proprio testo”. Quest’ultimo va considerato come “uno spazio a più dimensioni”, che articola al suo interno scritture diverse ma mai originali. Pensiamo a questo testo non come a qualcosa creato ex novo, ma come a “un tessuto di citazioni, provenienti dai più diversi settori della cultura”.
La molteplicità di queste scritture può ora riunirsi in un solo luogo: lo spazio del lettore. Perché “sopprimere l’autore a vantaggio della scrittura” implica “restituire al lettore il ruolo che gli spetta”. Così, per Barthes, “l’unità di un testo non sta nella sua origine [l’autore] ma nella sua destinazione [il lettore]”. Sennonché, non si tratta di una destinazione personale, dal momento che il lettore è “un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito”. Sembra insomma un altro impersonale Egli, senza giudizio.
Questo lettore può essere paragonato allo spettatore davanti all’opera di Paolini; è infatti nel suo sguardo che si compone l’unità dell’opera. È il suo sguardo che collega tra loro citazioni e piani differenti. Ma lo spettatore di Paolini è davvero quel lettore senza biografia e psicologia di cui parla Barthes? No, a differenza dal primo, la sua individualità ha grande peso. Nella percezione del quadro, lo spettatore mette in gioco la sua memoria, la sua storia culturale, i suoi sentimenti; senza questi elementi, la visione dell’opera non potrebbe compiersi. L’immaginazione – intesa come spazio personale dello spettatore – ha, per l’artista, un ruolo fondamentale. È ancora una volta lo scarto tra realtà e immaginato a produrre la magia dell’opera.
(In copertina G. Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967. Fotografia su tela emulsionata.)